L’immobilità di questo paese è spaventosa.
La paralisi delle istituzioni è qualcosa di aberrante, un deserto dove continuiamo a vagare senza meta. Si parla di esodati, licenziati, cassaintegrati, lavoratori temporanei. Il gelo che c’è tra il cittadino ed il palazzo è artico, entra nelle ossa del cranio della gente e le blocca.
Guardatevi in giro: siamo un paese che va avanti a cortei, che puntualmente vengono repressi. Si continuano a fare scioperi di poche ore, per poi tornare ligi in fabbrica (sempre che se ne abbia una dove tornare). Si perpetua una crisi che non è più solo economica, ma sociale e culturale.
La gente, quella che già prima se ne sbatteva del prossimo, è sempre più cinica. Quelli che hanno ancora qualche pezzo di cuore sano se lo tengono ben stretto, diventando ancor più cinici dei cinici stessi. Non si fa più caso al prossimo, nemmeno a quello più vicino. Chiudono musei, ospedali, cinema, teatri, scuole. Siamo un popolo preoccupato, a cui è stato tolto il “pre” ed ora può solo occupare quegli stessi teatri che hanno fatto la nostra storia. È il periodo dell’occupare, occupare tutto. Perché non abbiamo nemmeno più il diritto di entrare nei luoghi pubblici da liberi cittadini.
Abbiamo forze dell’ordine a cui viene tolta la carota, ma a cui vengono consegnati bastoni belli pesanti. E come qualunque impiegato, eseguono quello che viene loro impartito: picchiare, reprimere, soffocare. La Val Susa, gli operai, i giovani di fronte a Montecitorio, i cittadini incazzati per il veleno nell’aria. Picchiare, reprimere, soffocare. Non possiamo illuderci di potergli dire “venite dalla parte nostra” e di conseguenza convincerli. Qui non funziona così. Loro devono stanarci, prenderci e zittirci.
Picchiare.
Reprimere.
Soffocare.
La famosa “fine del mese” nemmeno esiste più: i giorni si confondono, i conti continuano a non tornare ed il cittadino altro non può fare che consolarsi col pallone e i tribunali televisivi, con le risse catodiche ed il sudore in fronte che non li ripagherà mai davvero. Rientrare in una casa che ha le fondamenta intrise di quel sudore, e sentirla sempre più stretta per colpa di IMU e bollette e consumi e disguidi, ti fa allontanare sempre più dalle tue radici. Ti fa dimenticare quanto davvero appartieni al tuo paese, alla tua città, di costringe ad infastidirti per colpa di quei vicini che si, rumorosi lo sono sempre stati, ma oggi esagerano. Arrivi ad odiarlo, il posto in cui vivi.
E con lui le persone che ti stanno intorno e che ci vivono come te. Soprattutto se il tuo malessere non viene minimamente considerato.
Ma, come dicevo qualche post fa, possiamo sbatterci la testa quanto vogliamo. Possiamo scendere ancora in piazza, con i nostri cartelli simpatici, possiamo continuare a svagarci al solito posto tutti i weekend. Possiamo continuare a votare, a fare referendum e a chiedere abrogazioni. Possiamo anche trovarci un lavoro, e mettere su famiglia: chi prenderà decisioni sarà sempre qualcun’altro, e queste decisioni non ci riguarderanno mai.
Perché il problema non è chi dice sempre le stesse cose.
Ma noi che (non) ci crediamo.